Investire in azioni europee o americane nel 2025: qual è la scelta migliore?

26 Marzo 2025

investire in europa


Il 2025 si prospetta come un anno cruciale per gli investitori azionari, chiamati a decidere se puntare sull’Europa o sugli Stati Uniti. Negli ultimi anni, Wall Street ha spesso surclassato le Borse del Vecchio Continente, ma le valutazioni attuali e il contesto economico stanno cambiando gli equilibri. In questo articolo faremo un’analisi approfondita e aggiornata della convenienza di investire in azioni europee rispetto a quelle americane, esaminando le performance storiche, i multipli di mercato (come P/E e P/B), le politiche economiche e monetarie e i fattori geopolitici.

Scopriremo inoltre l’importanza di una diversificazione geografica equilibrata – anche alla luce di un’esperienza diretta in banca sul finire degli anni ’90 – e proporremo una strategia concreta per allocare il portafoglio tra USA, Europa e mercati emergenti. Prepariamoci dunque a un viaggio divulgativo nello stile chiaro ed educativo, rivolto a risparmiatori evoluti e attenti alle opportunità globali.

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Andamento storico: Europa vs USA

Le borse europee e americane hanno vissuto fasi alterne di leadership nel corso degli ultimi decenni. Storicamente, prima della crisi finanziaria del 2008, l’Europa aveva spesso tenuto testa – e a tratti superato – la performance di Wall Street. Ad esempio, tra gli anni ’80 e metà 2000 le azioni europee ebbero periodi di forte sovraperformance; al culmine del 2007, infatti, i mercati europei avevano nettamente battuto quelli statunitensi in termini di rendimento cumulativo . Tuttavia, dopo il 2008 lo scenario si è capovolto: complice il boom tecnologico e la rapida ripresa post-crisi negli USA, l’S&P 500 ha inanellato una serie di risultati straordinari, distanziando l’Europa in maniera marcata.

Negli ultimi 5 anni la differenza è stata notevole: dal 2020 a fine 2024, un portafoglio di azioni USA avrebbe quasi raddoppiato il proprio valore, mentre uno investito in titoli europei sarebbe aumentato di circa la metà. In particolare, il 2022 ha visto cali generalizzati su entrambe le sponde dell’Atlantico, ma il 2023 ha segnato una forte divergenza: l’indice S&P 500 americano ha guadagnato oltre il 25% (grazie al traino dei titoli tecnologici), mentre l’MSCI Europe è rimasto quasi piatto (intorno al +2-4% in dollari) . Il risultato? Nel 2024 gli Stati Uniti hanno sovraperformato l’Europa di ben 23 punti percentuali (25% vs 2%), uno scarto annuo secondo solo al record del 1976 . Questa differenza eccezionale conferma il dominio recente di Wall Street.

Se ampliamo l’orizzonte, il divario diventa ancora più evidente. Su 10 anni (2015-2024), le azioni americane hanno prodotto guadagni cumulativi straordinari, circa tripli rispetto a quelle europee. Chi avesse investito 100 euro a fine 2014 nell’S&P 500 oggi si ritroverebbe con oltre 300, mentre la stessa somma sul mercato europeo (indice Euro Stoxx 50) sarebbe poco più che raddoppiata.

Infine, su un orizzonte di 20 anni la supremazia americana appare schiacciante. Dal 2005 ad oggi il mercato USA ha moltiplicato il capitale iniziale di circa 7 volte, mentre l’Europa solo di circa 2-3 volte (considerando i dividendi reinvestiti). Un dato eloquente: 1 dollaro investito a inizio 2008 negli USA sarebbe diventato 5,6 dollari oggi, contro appena 1,7 dollari investito in Europa . In altre parole, negli ultimi 15-20 anni Wall Street ha reso oltre il 330% in più rispetto all’Europa.

Cosa spiegano questi dati storici? Anzitutto, che la leadership di mercato è ciclica. L’ultima volta in cui le borse internazionali hanno davvero battuto gli USA fu negli anni 2000 (dopo lo scoppio della bolla dot-com e durante la grande crescita dei mercati emergenti): in quel decennio, complici il crollo del Nasdaq nel 2000-2002 e la crisi finanziaria globale del 2008, l’S&P 500 rimase indietro mentre l’Europa (e in generale i mercati extra-USA) beneficiava della crescita cinese e di valutazioni più contenute . Basti pensare che nel biennio 1985-1986 le borse europee registrarono rialzi impressionanti (+80% nel 1985 in Europa vs +30% negli USA) , e ancora nel periodo 2003-2007 l’Europa sovraperformò nettamente Wall Street . Dunque, se è vero che l’ultimo quindicennio è stato l’“età dell’oro” per le azioni americane, la storia ci insegna che nessun mercato domina per sempre. Come nota l’economista Jesper Rangvid, non bisogna dare per scontato che “un mercato azionario che ha dominato in passato continui a farlo in futuro” . I cicli si invertono: ieri l’errore sarebbe stato sottopesare gli USA, domani potrebbe essere sottovalutare l’Europa.

Valutazioni di mercato attuali: Europa a sconto, USA a premio

Alla luce delle performance divergenti, le valutazioni azionarie oggi presentano uno scenario quasi speculare: i listini europei appaiono economici rispetto a quelli americani. In media, l’Europa tratta a multipli più bassi sugli utili e sul patrimonio, offrendo al contempo dividendi più generosi.

Le azioni europee scambiano a circa la metà del multiplo utili delle americane. Il rapporto prezzo/utili intorno a 13× per l’Europa è vicino alla media di lungo termine (12,6× sugli ultimi 20 anni) , mentre l’S&P 500 viaggia su P/E superiori a 22×, tra i più alti di sempre . Questa differenza di oltre il 40% nei multipli non è mai stata così ampia nella storia recente , segno di quanto l’Europa sia a sconto rispetto agli USA. Anche considerando i settori dominanti, la discrepanza si conferma: l’indice USA è ricco di titoli tecnologici ad alta crescita (che giustificano P/E più elevati), mentre l’Europa è più concentrata su settori value tradizionali come banche, energia e industriali, tipicamente con multipli più bassi . Ma anche a parità di settore, i titoli europei quotano a valutazioni inferiori rispetto ai concorrenti americani: ogni settore dell’MSCI Europe tratta al di sotto del consueto sconto di lungo periodo rispetto all’analogo USA , segno che il “gap” non dipende solo dal mix settoriale ma da una sottovalutazione generalizzata delle società europee.

Parallelamente, il rendimento da dividendo in Europa è circa doppio rispetto a Wall Street. L’indice Stoxx Europe 600 offre cedole annue intorno al 3,3-3,5% , contro l’1,3-1,5% dell’S&P 500 . In alcuni mercati europei il dividend yield è ancora più alto (ad esempio il FTSE 100 di Londra rende circa il 4% ). Questo riflette un approccio più income oriented delle aziende europee – che distribuiscono agli azionisti una quota maggiore degli utili sotto forma di dividendi e buyback (circa il 60% degli utili nello Stoxx 600 contro il 35% nell’S&P) . Azioni “value” a basso P/B tipiche dell’Europa tendono infatti a pagare dividendi più ricchi, mentre i titoli growth USA reinvestono di più (cedole minori) . Per un investitore a caccia di reddito, dunque, l’Europa è attualmente più attraente. Inoltre, negli ultimi anni anche le società europee hanno iniziato ad aumentare i piani di buyback azionari (riacquisto di proprie azioni) – una pratica comune negli USA – portando il rendimento totale per gli azionisti (dividendi + buyback) oltre il 4% annuo in Europa, un livello paragonabile a quello americano .

Un indicatore interessante è anche il rapporto PEG (P/E rapportato alla crescita degli utili attesa). Alcune analisi mostrano che nei segmenti small e mid cap il PEG europeo è decisamente inferiore a quello americano, segno che a parità di crescita prevista, le aziende europee sono prezzate più a buon mercato . Ad esempio, le piccole cap europee trattano intorno a 12,8× utili con crescita attesa del 18%, mentre le small cap USA a 19,4× con crescita 9% – una differenza enorme. Questo suggerisce potenziale di rivalutazione per l’Europa qualora il sentiment degli investitori dovesse migliorare.

In sintesi, il mercato europeo oggi offre valutazioni più convenienti: prezzi più bassi rispetto ai fondamentali (utili e patrimoni) e flussi di cassa agli azionisti più elevati. Questa situazione è in parte frutto della sfiducia e degli afflussi di capitale divergenti degli ultimi anni: nel 2024 si è osservato un enorme flusso di investimenti verso gli USA (oltre 480 miliardi di dollari di nuovi capitali) a fronte di continui deflussi dall’Europa (circa 65 miliardi in uscita) . Il peso dell’Europa nei portafogli globali non è mai stato così basso , il che paradossalmente può essere una opportunità contrarian – molti titoli europei sono rimasti indietro nonostante fondamentali solidi, e basterebbe qualche segnale positivo per innescare un recupero.

Contesto macroeconomico e geopolitico: USA vs Europa nel 2025

Le differenze di performance e valutazioni tra Europa e USA vanno lette anche alla luce del contesto macroeconomico e geopolitico, che nel 2025 presenta sfide e dinamiche differenti sui due lati dell’Atlantico.

Crescita economica e utili societari: Nel 2024 l’economia americana ha mostrato una forza sorprendente, con PIL in accelerazione e utili aziendali robusti, mentre l’Europa ha arrancato per via di shock energetici e indebolimento della domanda. Questo “eccezionalismo americano” ha supportato Wall Street, generando quella sovraperformance di cui parlavamo . Per il 2025 le aspettative indicano ancora una crescita USA intorno al 2% annuo, superiore a quella europea prevista intorno all’1% . Anche gli utili aziendali attesi riflettono questo gap: il consenso stima per l’S&P 500 un aumento degli utili di circa +10% nel 2024 e +15% nel 2025, contro un più modesto +7-8% per l’Europa . L’Eurozona flirta con la stagnazione (PMI manifatturieri sotto quota 50 indicano contrazione industriale) , mentre il consumatore americano mantiene una domanda vivace. In parte questa divergenza è dovuta alle diverse risposte di politica fiscale: gli Stati Uniti hanno varato ingenti stimoli (es. piani infrastrutturali, Inflation Reduction Act per la transizione energetica, maxi-investimenti tech) alimentando crescita e anche inflazione, mentre in Europa le politiche di bilancio sono state più timide e frenate da vincoli di deficit (fatta eccezione per il programma NextGeneration EU post-Covid).

Inflazione e tassi di interesse: Dopo lo shock inflattivo del 2022, la traiettoria dei prezzi al consumo sta divergendo: negli USA l’inflazione core resta più tenace, alimentata da una domanda interna resiliente e da politiche fiscali espansive, mentre in Europa l’inflazione sta rientrando più rapidamente (complice il calo dei prezzi energetici e la domanda debole). A fine 2024 l’inflazione europea è rientrata vicino al 3% con prospettive di convergere al 2%, mentre negli USA oscilla ancora attorno al 3-4% con pressioni salariali elevate. Di conseguenza, le banche centrali potrebbero muoversi in modo diverso nel 2025: la Fed (Federal Reserve americana) dopo aver alzato aggressivamente i tassi fino a oltre il 5% nel 2023, potrebbe mantenere un atteggiamento cauto e più restrittivo più a lungo, temendo che una politica fiscale espansiva e un mercato del lavoro tirato rendano difficile riportare l’inflazione al 2%. La BCE, dal canto suo, avendo portato il tasso di riferimento intorno al 4%, vede ora un’economia in rallentamento e un’inflazione in calo: è probabile che l’Eurotower inizi ad allentare la politica monetaria prima della Fed, forse tagliando i tassi già nella seconda metà del 2025 . Questo differenziale di tempistiche potrebbe sostenere i mercati azionari europei (che beneficiano di tassi più bassi) rispetto a quelli USA. Già ora si ipotizza che nel 2025 la BCE possa ridurre i tassi di oltre 1 punto (dal 3,25% verso il 2%) mentre la Fed resterà più prudente . Un costo del denaro in calo in Europa significa credito più accessibile e minor onere per le imprese, un potenziale volano per gli utili.

Politiche fiscali e riforme: Un elemento nuovo che potrebbe giocare a favore dell’Europa è il cambio di approccio di alcuni Paesi chiave verso politiche fiscali più espansive. In Germania, ad esempio, si sta discutendo di sospendere il rigido “Schuldenbremse” (freno al debito) per avviare un massiccio piano di investimenti pubblici in infrastrutture e difesa, pari a oltre 500 miliardi di euro (12% del PIL) da spendere nel prossimo decennio . È un cambiamento storico – la cosiddetta “Zeitenwende” (svolta epocale) – che romperebbe anni di austerità tedesca. Inoltre, l’UE sta valutando un piano di riarmo europeo da 150 miliardi in prestiti, con l’idea di escludere le spese per la difesa dai conteggi dei deficit . Se gli Stati membri aumentassero la spesa militare di 1,5% del PIL (come suggerito), ciò equivarrebbe a 800 miliardi extra in 10 anni (oltre 4% del PIL UE) . Secondo alcune analisi, l’insieme di queste misure fiscali potrebbe alzare il tasso di crescita tendenziale annuo dell’UE da ~1,6% a livelli simili a quelli previsti per gli USA (~2,1%) nel prossimo decennio . In pratica, l’Europa potrebbe colmare il gap di crescita strutturale grazie a maggior spesa pubblica. Ciò si tradurrebbe anche in una crescita degli utili aziendali più rapida in Europa (stimata ~7% annuo per gli EPS europei contro ~6% per quelli USA nei prossimi 10 anni) , invertendo la tendenza degli ultimi 15 anni . Se queste previsioni si realizzassero, i mercati potrebbero dover ri-prezzare al rialzo gli asset europei rispetto a quelli statunitensi.

Geopolitica: Sul fronte dei rischi geopolitici, l’Europa resta più esposta alle tensioni vicine ai propri confini. La guerra in Ucraina ha colpito la fiducia e l’economia europea più di quanto gli eventi globali abbiano impattato gli USA. Prezzi energetici elevati, incertezza politica (si pensi alle crisi di governo in grandi economie come Italia, Francia o Germania nel 2024) e timori sul conflitto hanno mantenuto un “risk premium” sui mercati europei, frenandone le valutazioni. Una possibile risoluzione del conflitto russo-ucraino – non improbabile nei prossimi anni – potrebbe quindi essere un catalizzatore positivo soprattutto per l’Europa, riducendo quel premio al rischio che pende sulle Borse del continente . Da notare che negli USA il dibattito politico (con l’avvicinarsi delle elezioni) include posizioni favorevoli a una rapida chiusura del conflitto: se la futura amministrazione americana dovesse spingere per un accordo di pace, l’Europa ne beneficerebbe in modo diretto con un ritorno di fiducia .

Al contempo, gli Stati Uniti affrontano altre sfide geopolitiche: la crescente competizione strategica con la Cina e le tensioni commerciali potrebbero penalizzare alcune multinazionali USA esposte al mercato cinese o alle catene globali, mentre l’Europa – pur toccata dalla stessa dinamica – tende ad avere un profilo più neutrale verso Pechino. Se le relazioni USA-Cina dovessero peggiorare (ad esempio restrizioni sull’export tech, rischio Taiwan, ecc.), gli investitori potrebbero preferire asset europei come alternativa meno coinvolta nello scontro tra superpotenze. D’altro canto, è vero anche che gli USA mantengono una stabilità politica interna e istituzionale percepita come maggiore (nonostante le polarizzazioni), con mercati finanziari più profondi e liquidi che fungono da porto sicuro. L’Eurozona invece sconta latenti rischi di frammentazione (differenziali tra titoli di Stato, elezioni delicate in alcuni Paesi, ecc.) che possono alimentare sconti di rischio.

In sintesi sul macro: le politiche monetarie nel 2025 potrebbero diventare un vento in poppa per l’Europa (grazie a possibili tagli tassi BCE) e un freno relativo per gli USA (Fed restrittiva più a lungo). Le politiche fiscali stanno passando da divergenti a forse più simili, con l’Europa pronta a stimolare di più la propria economia. E sullo sfondo, la fine della guerra in Ucraina o nuove spinte industriali (come gli investimenti green e digitali continentali) potrebbero ridare appeal all’azionario europeo. Gli USA restano favoriti in termini di dinamismo economico e innovazione, ma molto è già prezzato nei corsi azionari americani (oggi costosi), mentre l’Europa si trova in una posizione inusuale di underdog sottovalutato che potrebbe sorprendere positivamente.

L’Importanza della diversificazione geografica

Di fronte a questi scenari contrastanti, quale deve essere l’approccio di un risparmiatore evoluto? La parola chiave è diversificazione geografica. Nessun investitore, per quanto esperto, può prevedere con certezza quale mercato sovraperformerà nei prossimi anni: gli ultimi vent’anni hanno premiato gli USA, ma in passato non è sempre stato così e in futuro la storia potrebbe cambiare. Puntare tutto su un solo mercato equivale a fare una scommessa rischiosa sul mantenimento dello status quo – scommessa che potrebbe non pagare se le cose dovessero evolvere diversamente dal recente passato.

Ricordo bene una esperienza personale in banca nel 2000: all’epoca lavoravo come consulente finanziario e molti clienti italiani mostravano scetticismo verso il mercato americano. Venivamo dai favolosi anni ’90 della Borsa italiana ed europea – basti pensare al boom della New Economy che coinvolse anche il Vecchio Continente – e la convinzione diffusa era che convenisse restare “vicino a casa”, investendo in titoli nostrani o europei, considerati più conosciuti e sicuri. L’S&P 500, dopo aver corso tantissimo negli anni ’90 con i titoli tech, veniva giudicato sopravvalutato e prossimo a una correzione duratura. Molti investitori trascurarono quindi il mercato USA proprio allo scoccare del nuovo millennio. In parte, nel breve termine, quella prudenza sembrò fondata – la bolla Internet scoppiò nel 2000-2002 e il Nasdaq crollò – ma guardando a qualche anno dopo, fu un errore strategico: già dal 2003 gli USA ripresero vigore e negli anni seguenti Wall Street tornò a brillare, trainata da settori innovativi e da una crescita più rapida dell’economia americana. Chi all’epoca aveva escluso o sottoponderato gli USA in portafoglio perse importanti opportunità di rendimento e di diversificazione. Questa lezione mi ha insegnato che non bisogna mai “innamorarsi” di un solo mercato né farsi condizionare dal recente passato dando per scontato che nulla cambierà.

Diversificare globalmente permette di beneficiare della crescita dove essa si manifesta e di attenuare i rischi specifici di una singola area. Se avessimo uno sguardo al 2030, potremmo scoprire che l’Europa avrà finalmente vissuto il suo “decennio d’oro” (magari grazie a valutazioni iniziali basse e a riforme strutturali), oppure che gli USA avranno continuato a dominare spinti da nuove rivoluzioni tecnologiche (pensiamo all’AI, alla biotecnologia, allo spazio) – o ancora, che i mercati emergenti asiatici saranno stati la vera sorpresa con tassi di crescita nettamente superiori. Nessuno ha la sfera di cristallo, per cui la scelta più saggia è non farsi trovare scoperti su nessun fronte: avere in portafoglio una quota di azioni USA, una di azioni europee e una di Paesi emergenti/Asia significa essere pronti a qualunque cambiamento di leadership, riducendo la volatilità complessiva e cogliendo le opportunità ovunque esse si presentino.

Vale la pena sottolineare anche un altro aspetto: la diversificazione geografica non riguarda solo i rendimenti, ma anche i benefici di correlazione. I mercati azionari tendono a muoversi in sincronia nelle grandi crisi globali, è vero, ma in fasi normali possono reagire in modo diverso a seconda delle notizie economiche locali, delle valute e di altri fattori. Ad esempio, nel 2022 l’Europa è scesa meno di Wall Street (in valuta locale) perché aveva meno titoli tecnologici iper-valutati e più titoli “value” beneficiari di inflazione (come banche ed energetici). Avere entrambi i mercati in portafoglio mitiga gli alti e bassi: quando l’America arranca l’Europa potrebbe tenere, e viceversa. Inoltre, aggiungere anche un’esposizione all’Asia ed emergenti introduce fonti di rendimento aggiuntive (legate alla crescita demografica e industriale di quei Paesi) e rischi non correlati con l’Occidente (ad esempio, mercati che possono salire anche quando Europa/USA scendono, e viceversa, a seconda del ciclo).

Strategia di portafoglio: la regola del 33/33/33

Alla luce di tutto ciò, ecco una strategia concreta e prudente per un investitore di lungo periodo: allocare circa un terzo del portafoglio azionario negli USA, un terzo in Europa e un terzo in Asia/emergenti. Questo bilanciamento 33/33/33% garantisce una copertura globale ben distribuita. Vediamo i punti di forza di ciascuna componente:

Azioni USA (~33%): continuano a rappresentare il pilastro della crescita globale. Pur con multipli elevati, includono aziende leader nei settori più innovativi (tecnologia, digital, farmaceutica avanzata, difesa, ecc.) che hanno mostrato capacità di generare valore e utili crescenti. Questa quota offre al portafoglio dinamismo e innovazione, beneficiando della solidità dell’economia statunitense e della sua capacità di reagire rapidamente alle crisi. È la parte “offensiva” orientata alla crescita di qualità.

Azioni Europa (~33%): forniscono valutazioni interessanti e alti dividendi. Questa fetta del portafoglio dà esposizione a settori tradizionali (industria manifatturiera, lusso, energie rinnovabili, banche) in fase di possibile rivalutazione. L’Europa offre inoltre diversificazione valutaria (per un investitore in euro, è la componente nella propria valuta, riducendo il rischio cambio sugli USA) e potrebbe beneficiare di politiche economiche più accomodanti nei prossimi anni. Rappresenta la parte “value e income” del portafoglio, generatrice di flussi cedolari e potenziale recupero dai prezzi compressi.

Azioni Asia ed Emergenti (~33%): includono economie in rapido sviluppo come Cina, India, Sud-Est asiatico e America Latina. Questi mercati apportano crescita potenziale più elevata, grazie a trend demografici e di urbanizzazione favorevoli. Sebbene più volatili e soggetti a rischi politici, nel lungo termine possono offrire rendimenti superiori se si materializza la convergenza economica con i Paesi sviluppati. Inoltre, molte aziende emergenti sono oggi competitive a livello globale (si pensi al tech asiatico, all’e-commerce cinese, ai produttori di materie prime). Questa quota funge da elemento di diversificazione extra: spesso gli emergenti hanno cicli non allineati al 100% con Occidente e possono beneficiare, ad esempio, di un dollaro debole o di fasi di boom delle commodities.

Naturalmente, la ripartizione esatta può variare in base al profilo di rischio individuale e alle aspettative personali: alcuni investitori potrebbero preferire un 40/30/30 dando più peso agli USA per comfort, altri un 30/40/30 credendo nel rilancio europeo, altri ancora inserire una piccola quota del 5-10% in settori specifici (es. mercati di frontiera o settori globali tematici come tecnologia o energia pulita). Ma l’importante è evitare squilibri estremi (es. 70-80% tutto su un’area geografica) che esporrebbero a rischi idiosincratici elevati. La regola del “tre volte 33%” è un ottimo punto di partenza, semplice da implementare magari tramite ETF o fondi indicizzati regionali, e consente di riequilibrare periodicamente (rebalance) mantenendo costanti le proporzioni: così si tende a vendere un po’ l’area che è salita di più e comprare quella rimasta indietro, automaticamente “buy low, sell high”.

Conclusioni

Investire nel 2025 in azioni europee rispetto a quelle americane richiede dunque un’attenta valutazione di pro e contro. Le Borse USA hanno dalla loro un track record eccezionale e un ecosistema di imprese leader mondiali, ma quotano a prezzi cari e scontano già molto ottimismo. Le Borse europee appaiono oggi come il “valore nascosto” sul palcoscenico globale: sottovalutate, snobbate da anni di flussi negativi, ma fondamentalmente solide e con possibili catalyst (tassi in discesa, politiche espansive, riduzione rischi geopolitici) che potrebbero innescare una riscossa. In questo scenario, più che schierarsi in modo binario Team Europa o Team USA, la scelta vincente è abbracciare entrambe, nel giusto equilibrio, e aggiungere al mix anche la terza colonna dei mercati emergenti per completare la diversificazione.

Come ci insegna l’approccio divulgativo di Piero Angela, cui sono stato spesso paragonato, è dalla conoscenza approfondita e dall’equilibrio che nascono le decisioni migliori. Un risparmiatore evoluto deve saper guardare oltre i risultati recenti, capire le forze in gioco (performance storiche, valutazioni, macroeconomia) e preparare il proprio portafoglio a ogni evenienza. Europa o America? La risposta è: entrambe, e non solo. Diversificando geograficamente si potrà navigare il 2025 – e gli anni a venire – con la tranquillità di chi sa di aver costruito un portafoglio robusto, pronto a cogliere le opportunità di crescita ovunque esse si manifestino. E chissà che proprio questa strategia bilanciata non ci permetta di partecipare da protagonisti alla prossima storia di successo, sia essa scritta a Wall Street, a Francoforte o a Shanghai. In bocca al lupo e buon investimento globale!

Think different, invest differently

Giacomo Saver – CEO di Segreti Bancari